Per più di duemila anni la lavorazione del ferro ha caratterizzato Lecco e i suoi abitanti. Una storia che parte dagli antichi siti minerari e siderurgici della Valsassina, passa dalle fiumicelle medievali e continua oggi con aziende tecnologicamente avanzate, che costituiscono eccellenze del Distretto Metalmeccanico lecchese.
Il viaggio del minerale
La presenza di giacimenti di minerale ferroso in Valsassina e di torrenti da cui trarre l’energia idraulica sono alla base della precoce vocazione metallurgica di Lecco.
Queste miniere furono sfruttate fin dall’Antichità, come testimoniano anche i reperti scoperti nel sito minerario dei Piani d’Erna (II sec. a.C.), ma essendo solamente le propaggini dei ben più ricchi bacini dell’area bergamasca e bresciana, erano di mediocre sfruttabilità e, intorno alla fine del Settecento, si esaurirono nonostante gli sforzi compiuti per individuare nuovi filoni.
Il ferro puro era ricavato attraverso la riduzione, cioè la fusione del minerale a contatto con il carbone di legna. Anticamente, ciò avveniva all’interno dei bassifuochi, dei rudimentali altiforni in cui si raggiungevano al massimo i 1200°, che andavano però sempre spenti prima di poter rimuovere il metallo ridotto.
Durante il Medioevo furono introdotti gli altiforni detti alla bergamasca: concepiti nelle valli bergamasche e bresciane. La maggiore temperatura raggiunta da questi impianti (1600°) permetteva la produzione di colate continue di ghisa che veniva poi decarburata per ottenere ferro dolce o acciaio. Questa tecnologia rimase in uso fino al termine del Settecento quando la maggior parte degli altiforni fu chiusa o sostituita da quelli alla norvegese.
A metà dell’Ottocento subentrarono i forni a riverbero che portarono all’indipendenza dal carbone di legna, sostituito dal carbon fossile (coke). L’esaurirsi delle miniere orientò gli imprenditori siderurgici verso una nuova attività: il riciclo dei rottami. Questa pratica, che permetteva grandi risparmi, divenne uno dei settori produttivi più redditizi e diffusi sul territorio lecchese.
Il Gerenzone, culla della metallurgia lecchese
Lungo la vallata del Gerenzone, il principale dei tre torrenti che attraversano la città, sorsero centinaia di fucine e opifici per la lavorazione del metallo. L’energia idraulica fornita dalle sue ripide acque e dagli altri corsi d’acqua minori (Caldone e Bione), concorse allo sviluppo industriale ed economico di tutto il comprensorio lecchese.
Fin dal Medioevo, il Gerenzone fu sfruttato in modo razionale tramite una derivazione artificiale detta Fiumicella, che permetteva di raggiungere anche gli opifici situati a quote più elevate rispetto al letto del torrente e, attraverso una serie di dighe e paratie, di mettere al riparo dalle variazioni stagionali del livello dell’acqua le ruote idrauliche che azionavano i magli e gli altri macchinari.
Anno dopo anno le attività industriali, specializzate nella lavorazione del ferro, del rame e dell’ottone, sorsero frenetiche lungo il corso del Gerenzone. Esse sopravvissero anche alla modernizzazione del comparto industriale e all’introduzione dell’energia elettrica che permise la delocalizzazione delle fabbriche verso il fondovalle e ai conflitti tra residenti e produttori dovuti al precoce inquinamento delle acque.
Dall’artigianato alla proto-industria: le fucine
La decarburazione della ghisa prodotta negli altiforni spesso avveniva all’interno di fucine dette grosse. Gestite da artigiani e imprenditori altamente specializzati in esse, inoltre, si producevano dei semilavorati detti quadri. Solitamente affiancate alle fucine grosse, si trovava un altro tipo di fucina detta, con un’accezione tipicamente lombarda, sotiladora in cui i quadri erano trasformati in semilavorati più sottili tra cui la vergella. Questi semilavorati, simili a delle verghe, erano alla base delle produzioni di altri due tipi di fucine specializzate: la fucina chiodarola e la fucina trafilera o trafileria.
In ogni fucina non mancavano gli elementi fondamentali come i focolari, utilizzati per riscaldare il metallo dei semilavorati per le successive lavorazioni; alimentati dai mantici, presto sostituiti dalle trombe idroeoliche; i magli, impiegati nella forgiatura dei semilavorati o di alcuni prodotti finiti e gli utensili vari, detti ferramenta.
La giornata di lavoro era particolarmente gravosa. In media negli opifici si lavorava per dodici o quattordici ore giornaliere, per sei giorni la settimana. I rapporti tra operai e imprenditori, prima della nascita delle associazioni sindacali, erano regolati da accordi informali basati sul cottimo. Tuttavia le controversie tendevano a non radicalizzarsi, anche in virtù dell’alta qualità della manodopera locale, in un momento in cui la produzione non era ancora del tutto meccanizzata.
I legami di ferro: le trafile
La città di Lecco trovò nel filo di ferro la sua maggior specializzazione, arrivando a diventare uno dei maggior produttori sul territorio nazionale. Almeno dal XIV secolo, nelle fucine trafilere, le vergelle venivano riscaldate e battute con speciali strumenti per essere arrotondate. Dopodiché erano fatte passare attraverso la trafila, una robusta e spessa lastra di acciaio dotata di fori di misura decrescente, per ottenere il filo di ferro. Questa operazione era svolta da un operaio chiamato “tirabagia” che, durante il Medioevo, seduto su di una sorta di altalena, tirava il filo con delle grosse pinze.
Dalle fucine alle grandi aziende: la rivoluzione industriale
Nella seconda metà del XIX secolo il comparto metallurgico lecchese si trasformò in un’industria in senso moderno. Ciò fu possibile grazie all’opera pionieristica di Giuseppe Badoni, che introdusse nelle sue fabbriche importanti innovazioni tecniche e organizzative già impiegate all’estero, come il puddellaggio e l’impiego di forni a riverbero.
I Badoni non furono i soli a sviluppare aziende all’avanguardia: Giorgio Enrico Falck impiantò il Laminatoio di Malavedo in associazione con le famiglie lecchesi Redaelli e Bolis. Alla fine dell’Ottocento nacquero molte nuove officine, distribuite in tutta la città, e alcune grandi fabbriche come il Laminatoio dell’Arlenico e la Ferriera del Caleotto, che fu la prima a dotarsi di due forni Martin-Siemens.
Nel 1905, intendo la maggior possibilità di sviluppo, Falck si trasferì a Sesto San Giovanni, dove fondò le celebri acciaierie. Nel Novecento la meccanica beneficò anche delle commesse militari durante le due guerre mondiali e dopo il 1950, le aziende lecchesi raggiunsero l’apice col grande boom economico. Lecco nel 1961 divenne il terzo polo industriale d’Italia (con 25,8 addetti nell’industria ogni 100 abitanti di cui almeno la metà impiegati nell’industria metallurgica e meccanica) dopo Varese e Milano.
Oggi le grandi industrie, entrate in crisi alla fine del secolo scorso, sono state sostituite da piccole e medie imprese, che si sono spostate in altri siti dell’area urbana, lavorando nuove leghe metalliche con tecnologie altamente specializzate.
I frutti della forgia
Dalle botteghe artigiane e dalle aziende meccaniche lecchesi uscivano svariatissimi prodotti. Da secoli i documenti menzionano chiodi e fil di ferro, ma anche attrezzi agricoli, fibbie, catene. La maggior parte di questi prodotti era venduta a Milano, il resto nei vari Stati in cui era divisa l’Italia pre-unitaria. Importanti furono anche le commesse militari: l’industria lecchese produsse nel secolo XVI canne d’archibugio per l’esercito spagnolo, fornì a Napoleone cerchioni e assali per carri, tondini, sciabole e, nel 1866, armò con i propri fucili i volontari garibaldini della terza guerra d’indipendenza.
Nel primo decennio del Novecento alle produzioni tradizionali si aggiunse quella delle macchine per i diversi settori industriali (meccanico, serico, alimentare, elettrico e chimico). Si realizzavano materiali per ferrovie, aerei, navi, automobili, moto e biciclette ma anche teleferiche, impianti telefonici o per linee elettriche, ponti e stazioni in ferro. Lecco arrivò a realizzare importanti opere infrastrutturali e ad esportare in tutto il mondo ferramenta, rubinetteria, bottoni di metallo.